MOSTRA 2001

Presentazione

Quest'ultimo decennio ha conosciuto la ripresa di un forte interesse per la valorizzazione del patrimonio storico-culturale del territorio nazionale : di tale interesse hanno beneficiato anche gli archivi di ambito locale e, in particolar modo, gli archivi comunali. L'archivio, di qualunque sia la sua natura, è il complesso dei documenti prodotti durante lo svolgimento di un'attività, e per questo ne racconta la storia. Un archivio comunale è custode delle memorie locali, conserva le testimonianze culturali, sociali, politiche ed economiche di un territorio circoscritto ed offre inoltre potenzialità didattiche stimolanti: i registri fiscali ad esempio, consentono agli alunni la ricostruzione del loro albero genealogico, oppure una ricerca sulla composizione sociale, sui mestieri, sul tenore di vita della loro comunità negli ultimi 400 anni. Nell'archivio comunale si possono studiare inoltre i danni subiti, a livello locale, dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, possono essere fatte ricerche sulle soppressioni leopoldine e napoleoniche degli enti religiosi, sulle feste popolari nei secoli scorsi e così via per moltissimi altre tematiche.

La mostra qui presentata vuole raccontare, attraverso i documenti conservati, la storia della comunità di Riparbella a partire dalla seconda metà del 500 al fine di ricostruire le tappe che dal punto di vista storico, sociale ed istituzionale, hanno segnato l'evoluzione della comunità e del suo territorio.

E' doveroso ringraziare l'Amministrazione Comunale che, consapevole delle potenzialità dei documenti da essa conservati e sensibile all'esigenza di far emergere le proprie origini, ha dato l'avvio al progetto di riordino dell'archivio.

Angela Porciani

torna su

Le Istituzioni Amministrative

L'archivio sstorico comunale di Riparbella possiamo ricostriuire le istituzioni amministrative che anticamente governavano il territorio. Alla fine del ‘500 il governo della comunità era affidato a due consoli, un camarlingo ed un consiglio generale cittadino. I consoli eletti, rimanevano in carica sei mesi, investiti del potere esecutivo garantivano l'osservanza di tutte le regole comunitative fissate dallo statuto stesso. Inoltre dovevano stimare i danni arrecati o subiti, fissare il prezzo delle merci vendute multando tutti coloro che applicavano tariffe più elevate rispetto a quelle da loro stabilite. Il camarlingo invece era colui che gestiva tutta l'attività finanziaria del comune registrando su appositi libri tutte le entrate ed uscite comunitative, per poi renderne conto ai consoli. Si i consoli che il camarlingo venivano eletti mediante la pratica dell'imborsazione : per ogni carica predisponevano una borsa nella quale inserire le polizze dei nomi di tutti coloro che aspiravano a tale ufficio. Al termine di ogni mandato si procedeva alla nuova estrazione fino all'esaurimento di tutte le cedole. Il consiglio generale della comunità, a cui era affidato il potere legislativo, era composto dai rappresentanti delle famiglie residenti in numero non inferiore di ventiquattro. Tale norma rimase in vigore fino al 1560, anno in cui venne deciso di portare i rappresentanti delle famiglie rappresentate a dodici, per facilitarne la convocazione da parte dei consoli ; a seguito di ciò anche la nomina a tale ufficio venne espletata tramite l'imborsazione. A testimonianza di questa attività politica sono conservati nell'archivio comunale quattro registri di deliberazioni dal 1565 al 1776.

Con la riforma amministrativa applicata da Pietro Leopoldo al distretto pisano a seguito del motu proprio del 17 giugno 1776, il territorio veniva suddiviso in quattro cancellerie, quelle di Pisa, di Vico Pisano, di Lari e di Peccioli. Riparbella si trovava ad essere amministrata dalla cancelleria e comunità di Lari, insieme ad altri comuni tra i quali Pomaia, Santa Luce Pieve e Pastina. Il governo eletto e residente a Lari era costituito da un magistrato, presieduto da un gonfaloniere coadiuvato da cinque priori, e da un consiglio generale di dodici membri. L'estrazione delle cariche avveniva sempre mediante l'estrazione dei nominativi dalle borse per le quali il requisito d'accesso era rappresentato dal censo. Il regolamento fissava anche gli abiti ed i fregi magistrali da indossare durante le adunanze. Il gonfaloniere doveva indossare un lucco color rosso mentre per i priori doveva essere nero senza fregio né adornamento alcuno.

Questo assetto amministrativo rimase inalterato fino all'avvento dei francesi. La Toscana venne occupata dalle forze napoleoniche nel dicembre 1807 ed annessa ufficialmente allo stato francese il 24 maggio 1808. Tutti i prcedenti ordinamenti amministrativi furono aboliti, il territorio toscano fu così diviso in tre Dipartimenti, quello dell'Arno, del Mediterraneo e dell'Ombrone. A loro volta i dipartimenti si suddividevano in circondari, cantoni e mairies : quest'ultime erano le nuove strutture municipalizzate.

La comunità di Riparbella inizialmente fu annessa alla mairie di Lari per poi essere aggregata, dal dicembre del 1808, a quella di Castellina Marittima.

Questa perdita di autonomia della comunità di Riparbella, dal 1776 fino a tutta la dominazione francese, giustifica la mancanza dei documenti relativi a tale periodo.

Con la fine della dominazione francese nel 1814 avvenne il ripristino, se pur con alcune modifiche, delle istituzioni amministrative esistenti prima del 1808 attraverso l'attuazione del Regolamento delle comunità del Granducato del 16 settembre 1816. Il Gonfaloniere non veniva più estratto a sorte ma eletto direttamente dal Granduca, su proposta del Soprassindaco e Soprintendente Generale alle comunità, tra i possidenti più distinti per buona reputazione, per moralità e per zelo patrio. Il Gonfaloniere rimaneva in carica tre anni, con la possibilità di essere ancora una volta eletto, qualora, nel primo mandato, si fosse distinto per zelo e per il buon servizio pubblico.

I Priori e Consiglieri tornavano ad essere eletti mediante il sistema dell'imborsazione ed il requisito di accesso a tali cariche era costituito ancora dal censo. Per l'ufficio dei priori veviva estratto il doppio del numero dei soggetti necessari ed il Soprassindaco provvedeva alla stesura del relativo ordine di nomina : il primo priore era investito anche della funzione di vicario del gonfaloniere. Annulmente i priori erano rinnovati per metà del loro numero a cominciare dagli ultimi della nota. I consiglieri venivano estratti in numero necessario e rimanevano in carica un anno. Il magistrato comunitativo ed il consiglio di Riparbella erano composti rispettivamente dal gonfaloniere e due priori e da sei consiglieri.

Nel 1849 fu emanato un nuovo regolamento che apportava delle profonde modifiche a tutto il sistema, infatti per la prima volta la rappresentanza comunale poteva essere eletta direttamente dai contribuenti più agiati. Infatti gli elettori erano i due terzi di tutti i contribuenti, presi per ordine di maggior quota di contributo sul ruolo generale. Il Consiglio Comunale, al suo interno, eleggeva con scrutinio segreto i Priori, in ragione di uno ogni quattro consiglieri. Al Consiglio era attribuito il potere deliberativo mentre al collegio dei Priori quello esecutivo. Il Gonfaloniere era nominato dal Granduca anch'esso tra i rappresentanti del Consiglio Comunale ; tutte le cariche avevano un mandato di quattro anni. La rappresentanza comunale di Riparbella si componeva di un gonfaloniere, dieci consiglieri e tre priori.

Questo regolamento però rimase in vigore solo per quattro anni, infatti nel 1853 venne abolito e ripristinato quello del 1816.

Nel 1859 il Governo provvisorio della Toscana emanò ancora un nuovo regolamento che si rifaceva a quello del 1849, questo rimase in vigore fino alla riforma amministrativa del Regno d'Italia del 20 marzo 1865.

torna su

 

Lo statuto del Comune di Riparbella

Gli antichi statuti comunitativi rappresentano una fonte indispensabile per studiare e conoscere una comunità ed il suo territorio. La comunità, investita di potestà statutaria quale retaggio degli antichi diritti, stabiliva localmente un corpus di norme volte a regolare la sua attività amministrativa ed economica. Per la loro redazione veniva eletta, dalle autorità comunitative, un'apposita commissione di statutari , a rappresentanza di tutto il territorio. Prima di essere reso pubblico, lo statuto doveva essere inviato agli Uffici Centrali per verificare che le norme in esso contenute non fossero in contraddizione con quelle contenute nello statuto della città dominante. Nel caso della comunità di Riparbella, la città dominante era Firenze già dai primi del XV secolo. Una volta controllato, l'atto veniva rogato, cioè trascritto in forma corretta e reso pubblico da un notaio. Nel tempo queste norme statutarie dovevano essere modificate ed aggiornate a seconda delle esigenze della comunità. Tali riforme, sempre preparate da membri eletti appositamente, venivano annotate di seguito alla norma da modificare: lo statuto veniva copiato solo quando le molteplici aggiunte impedivano la sua comprensione.

Nel corso dei secoli, con la crescita degli uffici centrali che avevano il compito di controllo del territorio, gli statuti locali persero gradatamente d'importanza e furono del tutto sostituiti a seguito della riforma comunitativa di Pietro Leopoldo della seconda metà del XVIII secolo .

Lo statuto della comunità di Riparbella è una copia del 1661: si tratta di un piccolo registro di ventisei carte scritte, rilegato in pergamena intitolato Capitoli & Statuti della Comunità di Ripabella.

Nella prima parte degli statuti troviamo le norme che regolavano tutta l'attività politica ed amministrativa del tempo. A seguito di questa troviamo le norme che regolavano le attività agricole e pastorali della comunità.

Tutti coloro che portavano a pascolare le proprie bestie sul territorio comunale, per almeno otto giorni consecutivi, dovevano versare al camarlingo una tassa. Questa era calcolata in base alla razza degli animali : soldi dieci per ciascuna bestia brada, bufalina, vaccina o cavallina, soldi otto per bestia porcina, soldi uno per bestia capra, soldi due per bestia pecora. I consoli erano i deputati alla sorveglianza del pascolo e dovevano rilevare, rispettivamente i primi otto giorni di maggio e di ottobre, il numero, il tipo ed il possessore delle bestie al pascolo ; con questi elementi il camarlingo ripartiva il dazio annuo a partire dal mese di maggio. Il territorio lasciato a bandita si estendeva verso levante tra la comunità di Riparbella e quella di Montescudaio ; i suoi confini erano “naturali” approssimativi, come il botro di Vicigoli, di Carvolla e di Rimetro e la mancanza di vere delimitazioni faceva nascere spesso dispute per lo ius pascendi tra Riparbella, montescudaio e la Tenuta della Cecina. Questi contrasti sono durati per molti secoli perchè ogni tentativo di delimitazione trovava discordi i rappresentanti delle comunità. I consoli di Riparbella, annualmente, deliberavano la chiusa della bandita, dal 15 di ottobre fino a febbraio, al fine di salvaguardare almeno una parte del loro territorio dall'uso di pascolo da parte di animali di ogni tipo. Per gli animali trovati senza permesso dentro la bandita erano fissate le seguenti pene pecuniarie : soldi quattro per ciascuna bestia vaccina, bufalina o cavallina, soldi due per ogni bestia pecorina, caprina e porcina. Il divieto era esteso anche agli uomini, infatti ogni individuo trovato a raccolgiere ghiande, veniva multato di soldi cinque. Talvolta però la comunità poteva accordare delle eccezioni a seconda degli eventi verificatisi come per esempio lasciare il libero accesso nella bandita agli animali porcini in anni in cui la produzione di ghiande era particolarmente fruttuosa. Solo nel XVII secolo il termine bandita viene legato al concetto di riserva di caccia, quando Riparbella diviene feudo della famiglia Carlotti.

Le norme sull'agricoltura erano tese a salvaguardere e valorizzare ogni prodotto locale, in particolar modo la coltura della vite. Per questo la vendemmia non poteva essere fatta se non dopo il quindici di settembre al fine di evitare vini guasti o agri. In generale veniva propibito cogliere o guastare qualunque frutto prima della loro maturazione, a pena di soldi dieci, se il reato avveniva di notte, soldi cinque, se di giorno.

Per far buone le entrate del comune , gli statutari fissarono l'obbligo, da parte degli abitanti del comune, di andare a macinare i loro grani ai mulini comunali, pena una multa di soldi quattro per ciascuna staia macinata altrove. Questo perché, chiunque portava il grano a macinare doveva pagare una tassa di macine , riscossa direttamente dal mugnio “comunale”.

Dal 1678 questa imposizione venne trasformata in una vera e propria tassa personale. Per la sua applicazione, la comunità di Riparbella eleggeva due depuatati, il numero variava dalle dimensioni della comunità. Gli uomini incaricati dovevano, in primo luogo, effettuare il giuramento di fare giusta detta tassa rimosso ogni odio e passione che potessero avere contro le persone di Riparbella e successivamente preparare il bando delle portate. In base a questo ogni capofamiglia, nel mese di marzo, era chiamato ha presentare al cancelliere la portata di tutte le bocche della propria famiglia. Questa consisteva in una descrizione dei suoi familiari, compresi i bambini sotto i tre anni, specificando il nome, l'età, il grado di parentela ed la qualità dell'intera famiglia cioè se possiede beni in proprio, se in livellari o lavoratore mezzajolo, di terre spezzate. Questi dati, tutti suddivisi popolo per popolo e famiglia per famiglia, venivano raccolti in appositi registri sui quali il tribunale di competenza, effettuava il riscontro delle bocche, controllava cioè la veridicità delle dichiarazioni effettuate, applicando, in caso di omossione o frode, delle gravose sanzioni. In base a queste dichiarazioni i deputati dovevano effettuare i reparti della tassa , cioè suddividere i residenti in classi ed in base a queste ripartire la tassa tra gli abitanti. Nel 1753 la comunità di Riparbella risultava essere così suddivisa : la prima classe comprendeva i benestanti, poi a seguire i comodi, lavoratori sul suo, livellari, lavoratori mezzajoli, lavoratori di terre spezzate, gli artisti, i pigionali, una calsse arbitraria ed infine gli ecclesiastici. Una volta ripartita la tassa, i deputati dovevano affrontare i ricorsi da parte dei tassati, gli eventuali defalchi e l'elezione del camarlingo che materialmente provvedesse alla riscossione della tassa. Il camarlingo annotava tali operazioni su appositi registri, predisposti dal cancelliere comunitativo, chiamati dazzaioli della tassa di macine. A fine anno, lo stesso camarlingo aveva il dovere di rendere conto del suo operato sul libro dei saldi.

Gli statuti si preoccupavano anche dell'igiene pubblica, infatti era fatto divieto fare alcuna bruttura o lavar panni, abbeverare i cavalli o far abbeverare bestia di qualsivoglia sorte. Inoltre era fatto obbligo, ad ogni abitante del castello di Riparbella, spazzare davanti alla sua abitazione, almeno una volta alla settimana, e più precisamente il sabato.

torna su

Corsa Agraria
II° Nella maremma Pisana e Volterrana
Tratto dal “Giornale Agrario Toscano” VIII Anno 1834
pagg. 256 - 295

E' il resoconto della visita condotta nel territorio di Riparbella da Lapo dei Ricci e da Giovan Pietro Viesseux , redattori della Rivista Agraria pubblicata per la prima volta nel 1827. I viaggiatori furono ospiti della famiglia Giusteschi che già aveva introdotto contratti di lavoro “innovativi” per rendere coltivati i terreni incolti, dando impulso all'economia del Paese. Dalla Corsa Agraria emerge un'agricoltura già delineata nei caratteri distintivi: la fitta maglia dell'appoderamento, la forte presenza della proprietà terriera, l'introduzione dei contratti di mezzadria.

Tratti che non molto più tardi risulteranno quelli caratterizzanti dell'agricoltura toscana fondata sul sistema “mezzadrile”, sull'organizzazione e sul riassetto del territorio (attraverso opere di bonifica idraulica)

Riparbella

Questo ridente, e oggi popoloso paese è situato sulla sommità di un poggio al quale si arriva per una strada situata fra le insenature di poggi che non offrono agli agricoltori altro aspetto che quello di una trista e selvaggia natura. La strada scorre lungo un torrente stretto in gran parte fra colline dirupate, ed alcune coperte di lecceti che rendono anche più malinconico il passaggio. In qualcheduna di quelle piegature del monte si vedono dei campi recentemente disfatti, dei poderi nuovamente creati, e reca sorpresa come si siano trovati dei volentierosi che abbiano avuto il genio di coltivare que' luoghi. Immagini il lettore una valle, o diremo meglio, un pozzo nascosto in un andirivieni di poggi, che si soprappongono uno all'altro, del quale le pareti siano erte e sassose, e dove hanno giacitura meno ripida, poste a cultura con sementa e viti, ed avrà l'idea di quella strada fino al piede di una ardua salita.

Il piano della strada è modernamente costruito, e però possono passarvi le vetture colle ruote, nonostante l'eccessiva pendenza. Giunti ad un certo punto piuttosto elevato si cominciano a trovare delle olivete, e l'orizzonte mano a mano va slargandosi sempre di più quando si giunge ad una spianata, dalla quale si vedono le prime case del paese, dove arrivati, fummo accolti con tutta l'amorevolezza ospitaliera ed amica dalla famiglia Giusteschi, proprietari intelligenti ed attivi di quel luogo.

Il poggio dove risiede gode a levante della veduta di Monte Scudaio e Guardistallo, il mezzogiorno resta piuttosto impedito da colline più elevate di quelle, il ponente è racchiuso dall'Orto ai cavoli, appartenenza della R. Tenuta di Cecina e dai poggi di Nocola, i quali riparandosi il tramontano vanno poi a chiudersi scendendo in una vallata superiore del fiume Cecina. Il celebre Giovanni Targioni che visitò questo luogo circa settanta anni indietro, lo ritrovò per ogni verso circondato da boscaglia e da poggi vicini che gli impedivano la ventilazione, e ne rendevano l'aria insalubre nell'estate, e fu sorpreso di trovarlo così stremo di popolazione, tanto più che egli sapeva essere stato ben diverso tre secoli indietro, essendo uno dei castelli più popolosi ed interessanti della provincia volterrana.

Il trovare oggi in quel luogo, cosi poco favorito dalla natura, molta popolazione sana e sollazzevole, che novera, circa mille trecento individui, mentre trent'anni addietro non erano trecento; il vedere movimento di barocci e di carri in quell'angolo appartato; l'osservare che per ogni parte vanno inalzandosi fabbriche; il sapersi che per edificarle è ricercatissimo il terreno, e che vi si vende da una lira a due paoli il braccio, desta grandemente la sorpresa e la curiosità del viaggiatore. La prima idea che si presenta per spiegarne la causa è quella dell'istinto contradittorio della umana natura che si compiace degli ostacoli, e si ostina appunto contro di essi in quei luoghi dove le difficoltà sono maggiori.

Ci parve dunque interessante di rintracciarne la storia economica, quale non sarà discaro al lettore di conoscere, perché ci da un'idea dei progressi e delle gradazioni nei miglioramenti dell'agricoltura. Non esistono miniere, né terreni fertilissimi, e nemmeno manifatture, e di più non vi sono state trasportate per particolari circostanze somme di denaro colle quali rendere fruttiferi quei fondi, dei quali il Targioni ebbe quasi spavento quando fu a visitarli.

La industria agricola liberata dai ceppi che l'avvolgevano, lasciata camminare pacificamente per tutte le sue gradazioni ha operato questi miracoli, ed ecco come. Appartenevano quei terreni in massima parte a pubbliche amministrazioni, al R. Scrittojo delle Possessioni, e portavano pochi soldi all'anno alla cassa Regia, con molte vessazioni e scoraggiamento di quei poveri abitanti. I boschi erano sottoposti al servizio forzato della R. Magona. Il gran Leopoldo primo, vendé a bassissimi prezzi quei terreni ai particolari rilasciando loro il prezzo in mano, e contentandosi del frutto del tre per cento, e quindi gli liberò dalle servitù che gli gravavano.

Ciò accadde circa l'anno mille settecento ottanta, quando gia si cominciavano a provane gli effetti benefici della liberta frumentaria, e quando da ogni parte si strappavano i vincoli:, si rompevano catene che tenevano inceppato ogni movimento industriale, e che l'agricoltura libera da questi lacci diveniva la passione dominante, l'oggetto di tutti gli sforzi, l'impiego di tutti gli avanzi dei Toscani. Si cominciò dunque dal dissodare terreni atterrando il bosco che gli copriva, e vendendone il legname; la popolazione lavorante che una volta soltanto in tempo d'inverno discendeva dalle lontane montagne a lavorarvi, divenne stazionaria. Le abbondanti raccolte di cereali sopra quei terreni di nuovo acquisto, ed i prezzi elevati dei medesimi uniti al discreto e parco modo di vivere diedero a quei proprietari il mezzo di eseguire i lavori campestri, ne' comparve più temerario speculatore quello che aveva ardito di acquistar terreni senza avere un soldo in tasca. E queste circostanze furono tanto favorevoli, che scorsi appena "enti anni dopo le prime concessioni, poterono quei compratori, nel tempo della dinastia Borbonica, pagare al regio erario molte somme in conto degli acquisti che avevano fatto; ma sarebbero andati perduti se non avessero immaginato nuovi compensi.

Noi abbiamo reso conto nel nostro Giornale del modo tenuto, nei contratti fatti dai sigg. Giusteschi, per rendere fruttifere quelle terre regalandole, diremo così, a uomini laboriosi i quali non avevano per capitale che la industria delle braccia loro. Questi (giova ripetere il fatto) dissodavano terreni pagando un sacco di grano al proprietario per ogni sacco di sementa che spargevano sul suolo; il seme era imprestato dal proprietario, ed egli lo riprendeva a raccolta, così non vi era per i lavoranti altra spesa, che l'anticipazione del lavoro. Tali dissodamenti si facevano, e si fanno da operanti i quali profittano del tempo che avanza loro alle giornate nelle quali faticano per altri, onde procurarsi la sussistenza. Quella sementa poi rende loro, otto o dieci sacca di grano, le quali servono nell'anno successivo a porgli in grado d'impiegare maggior tempo in più estesi lavori; e questi sono chiamati con nome vernacolo, terraticanti.

Questa prima operazione che attualmente si pratica in molte parti della Maremma, fu seguita da un'altra. Si volevano ridurre a cultura, piantando olivi e viti, quei terreni che dopo la prima sementa sarebbero ritornati ad inselvatichire, o divenire scogliere, essendo abbandonati al dominio delle acque; ed i proprietari mancavano dei capitali necessari per ottenere l'intento, né sarebbe stato utile compenso, né proporzionato alla intrapresa il trasportarvi gli altrui prendendoli in prestito. Allora fu che assegnando a qualche terraticante una porzione di terreno dalle quattro alle sei saccate, (quad. 9, ett. 26) ed indicando loro il modo di coltivazione, cioè disegnando le fosse ed i ripari campestri; questi profittando degli avanzi che aveva fatto con le sue semente gli anni antecedenti, ed anche di quelli che sullo stesso terreno che coltivava andava giornalmente ottenendo, poté impiegarvi il tempo necessario ad eseguire tali lavori; e quando il terreno fu coltivato, la metà di quello passo in di lui piena proprietà, come pagamento dell'opera impiegata, e l'altra restò a vantaggio del proprietario. Ed ecco che il terraticante continuando a vivere con economia, e lavorando la propria terra, né rifiutandosi ad altre faccende, se gli si presentavano, è riuscito ad alzare quattro muri, a coprirgli con un tetto, insomma a farvi una casa che ha potuto corredare con mobilia povera ma decente, ed è in ultimo riuscito a comprare il vitello e l'asino indispensabili per il letame e per i trasporti, non abbisognando di bovi, perché le preparazioni per la sementa sono fatte dal medesimo a braccia. Con questo modo in diversi punti di quella Comunità, e più particolarmente nel luogo detto il Cerro grosso che visitammo con attenzione, cinquanta saccate di terreno (quad. 75. Ett. 25.53) non fertilissimo servono per farvi vivere dodici famiglie, circa sessanta individui, mentre i vecchi del paese si ricordano che quei terreni erano asilo di cignali e di lupi.

Questo secondo passo è seguito da un terzo che semplicizza sempre più e facilita le condizioni degli agricoltori che vogliono stabilirvisi. Si vendono oggi quei terreni che sono stati a d ebbio, cioè una volta seminati al prezzo medio di trenta a quaranta scudi la saccata, rilasciando il prezzo in mano del compratore al frutto del quattro o del cinque per cento per lo spazio di dieci o venti anni, essendo questo tempo sufficente ad un lavorante economo a render fruttifero quel terreno, fabbricarvi la casa, e pagarne l'importare. E questi nuovi proprietari, lavorando da sé, ritraggono molto maggior frutto degli altri, e può ragguagliarsi il prodotto del loro grano alla ragione di sette per uno di sementa, e quello dell'olio di barili cinque per ogni saccata, ed intanto gli antichi proprietari ritraggono un frutto di dodici o tredici lire per saccata da terreni che prima non davan loro frutto alcuno.

Questo utile smodato che essi ritraggono proviene da particolarissime circostanze, non riproducibili per tutto, e dalle gradazioni che hanno avuto il tempo di percorrere dal 1780 fino al presente giorno; né è maraviglia se anche i grandi proprietari di quel luogo non si rifiutano, come altrove farebbero, a cedere delle porzioni di terreno per costruirvi case, per farvi piantazioni, e profittano cosi di vantaggi non facili a realizzarsi da per tutto. Questa divisione di terre, questa creazione di capitali, questa comodità acquistata da una popolazione povera rendono assai interessante e da vagheggiarsi quel luogo dove va ogni giorno migliorando non solo l'agricoltura ma quel che è più, la condizione civile e morale degli abitanti.

Il terraticante divenuto proprietario ha acquistato una posizione più avvantaggiata nella società, e se ne è accorto, e solo gli bisognerebbe avere qualche istruzione, onde apprezzarla convenientemente. E dicendo così non vorremmo che le nostre parole fossero interpretate per un eccitamento a quelli industriosi ad esci re da quella vita laboriosa, e indirizzare i loro figli per altra via che non fosse industriale, e che dissipassero i loro avanzi inviandogli nei seminari, nei collegi, all'università, giacché facendololo, i sudori di tanti anni sarebbero irreparabilmente perduti.

Nella speranza dunque che si contenteranno che i loro figli imparino a leggere, scrivere, calcolare e gli elementi di quelle scienze, che possono regolare la loro industria; e non avranno la trista e dannosa boria di farsi dottori o impiegati, gli confortiamo a seguire l'intrapresa carriera assicurandogli che sarà più onorevole ed utile quella di tutte le altre che un'ambizione irragionevole potesse loro suggerire: ed ora lasciando queste osservazioni, torneremo a parlare degli usi e delle condizioni agrarie di quella comunità che ci sembrarono ben intesi e rimarchevoli.

Il peggio è vestito di olivi che non invidiano quelli delle vallate di Buti e di Calci, e può calcolarsi che il terreno coperto da questi abbia una estensione di circa centocinquanta saccate (quadrati 225, ett. 52). Gli olivi dei terraticanti che sono nelle nuove coltivazioni uniti alle viti e alla sementa non entrano in questo calcolo. Nelle olivete seminano ogni tre o quattro anni, e più comunemente fave e anche trifoglio e vena; vi nascono spontanee dell'erbe che gli agricoltori seccano per averne fieno l'inverno.

Nelle coltivazioni nuovamente fatte in qualche distanza dal paese è seguito il sistema generale praticato in Toscana, cioè di frammischiare le viti e gli olivi in filari orizzontali nei campi a sementa; è vero però che ci è sembrato che quei coltivatori abbiano preferito le piantazioni delle viti alle altre piante, forse perché meno costose e più sollecite a provvedere ai bisogni della loro famiglia, ciò che quei piccoli proprietari non dovevano perdere di vista, ed avevano ragione.

Le colline più basse e i ripiani, se tali possono chiamarsi certe piccole porzioni di terreno abbandonate da quei torrentelli, sono preferibilmente seminate a grano, ciò che crediamo ben fatto tanto più che non ci parve che fosse sufficientemente preveduta la necessità dei foraggi per i bestiami in coltivazione tanto estesa, e che giornalmente va estendendosi ed è bisognosa di letami, senza dei quali ogni piantazione resta inutile e infruttifera. Si può calcolare il prodotto medio dell'olio nella comunità circa a milleduegento barili all'anno, e questo è il principal prodotto d'importazione di denaro nella comunità. Il grano sopravanza pure ai bisogni di quelli abitanti, e le strade megliorate gli hanno posti in grado di cavar profitto dal legname dei boschi. Oltre a ciò quei piccoli proprietari non ricusano d'impiegare l'opera loro nei lavori che altri fanno fare alle pianure.

Lasciamo Riparbella riprendendo la strada che avevamo fatta per arrivarci, e la seguimmo fino al punto ove imbocca nella via così detta Salaiola, perché costruita per il trasporto del sale dalle Moje al littorale di Cecina e di Vada, e che entra poi nella strada Regia Grossetana in vicinanza del Ponte del Fitto. La giacitura della strada è pianeggiante sulla diritta del fiume Cecina, ma per lungo tempo costeggiata quasi a picco dai poggi di Riparbella, e avendo non lontani sulla sinistra della Cecina quelli di Monte Scudaio, Guardistallo e Querceto, e dei quali parleremo in appresso, quando avremo luogo di trattare degli usi agrarii del restante della vallata della Cecina. Poche case, rade coltivazioni si osservano lungo quella linea, quando se ne eccettuino alcune nella prossimità di Querceto e di Buriano, quindi poco transito di trasporti per quella strada, per la quale la solitudine aumenta la tristezza della situazione.

Il vedere in qualche distanza gli estesi fabbricati della Regia Amministrazione delle saline, rallegra l'animo, ed il giungervi, per quanto la posizione delle Moje non sia felice, e vedere il movimento di persone e di vetture, e tutti quei nuovi e ben tenuti edifizi ne riconforta alcun poco. I terreni vicini a quello stabilimento sono coltivati a viti, e vi si vedono estese semente di lupinella; le viti in generale sono appoggiate ai loppi, e ci parvero ben tenute. Alle Moje imboccammo nella strada che da Volterra giunge fino a Massa, e quindi si riunisce sotto Scarlino colla via Regia grossetana, passando per Pomarance, dove eravamo diretti.

torna su

La nuova scuola

Nel 1913 la Chiesa di San Giovanni Evangelista cedette il terreno denominato la chiudenda della Pievania al Comune di Riparbella per la costruzione di nuove case operaie. Le trattative relative all'acquisto del terreno erano in realtà iniziate molto prima e più precisamente nel 1892. Il Comune acquistò tale terreno, che comprendeva l'area che partendo dalla metà del muro esterno del coro della chiesa andava in linea retta alla proprietà Dolfi e lateralmente a mezzogiorno ai confini Casini, Moscardini, Paglianti, per complessivi mq. 7409.23 ca., a seguito del pagamento di 20 annualità di £ 200. Per la realizzazione del progetto tecnico fu incaricato l'ingegnere Carlo Giusteschi che predispose, in data del 3 maggio 1909 un elaborato relativo all'ampliamento dell'abitato . Tale modifiche urbane prevedevano anche la realizzazione di un edificio scolastico al fine di ovviare alla situazione precaria di una scuola sorretta da 4 insegnati dislocati in altrettanti ambienti sparsi nel paese.

Anche il progetto dell'edificio scolastico fu realizzato dall'ingegnere Carlo Giusteschi nel 1915. La relazione allegata a tale progetto, riporta la Statistica degli alunni obbligati alla scuola quinquennale dal 1908 al 1913, al fine dell'individuazione della giusta dimensione. Da questa ne deriva che 230 nel quinquennio in esame, erano chiamati a frequentare la scuola, 230 maschi, e 213 femmine, per un totale 443 alunni.

La prima stesura del progetto non trovò parere favorevole dell'Ufficio del Genio Civile che comportò una completa revisione da parte dell'Ingegnere. Nel progetto le parti colorate in blu sono le modifiche apportate a seguito delle indicazioni del Genio Civile.

torna su

I cimiteri della comunità

Nel luglio del 1838 il gonfaloniere di Riparbella si recò a Pisa, alla Regia Camera di Soprintendenza Comunitativa, per trattare l'affare relativo alla costruzione di un nuovo camposanto. Tale affare risultava urgentissimo a causa delle continue lamentele degli abitanti, già nell'adunanza magistrale del 24 marzo 1836 venne affidato l'incarico all'aiuto ingegnere di Riparbella, di identificare un luogo adatto ad accogliere il nuovo cimitero per essere l'attuale quasi in mezzo al castello. Questo aveva un'area di circa 690 braccia quadre era ormai insufficiente e, visto lo sviluppo urbano, risultava troppo vicino al paese. Infatti era collocato adiacente alla chiesa della SS.ma Annunziata lato nord-est e confinava con la proprietà Baldasserini, aveva forma rettangolare di 23 braccia e mezzo per 29 e mezzo.

Altri piccoli cimiteri erano sorti adiacenti alla chiesa principale intitolata a San Giovanni Evangelista, rispettivamente nel terreno di fronte all'attuale entrata e nel lato destro rispetto allo stesso acceso.

Un primo progetto per il nuovo camposanto fu compilato dall'aiuto ingegnere Eugenio Fabre il 31 maggio 1838. Sulla base della legge del 19 luglio 1783, considerando che la comunità di Riparbella contava 1420 anime, con una mortalità media, in base agli ultimi dieci anni, si prevedeva l'occupazione di una superficie tale da consentire l'inumazione di almeno 588 cadaveri, per arco temporale di quindici anni circa.

Il primo progetto prevedeva la costruzione del nuovo camposanto in località Poggi Brucoli , in un appezzamento coltivato ad olivi di proprietà del Conte Mastiani, distinto al Nuovo Catasto alla Sezione E n°15. Tale luogo distava dal centro del paese di Riparbella circa 181 pertiche e dalla chiesa parrocchiale 211 ed doveva avere un'estensione di 50 braccia dalla parte di levante e 49 da quella di tramontana , distando dalla strada Chiannerina 15 braccia. Annessa al cimitero era prevista una cappella con due finestre completa di altare con baldacchino ornato di tela gialla con balza a scacchi rossi. Questo locale doveva servire anche come stanza mortuaria per effettuare le mansioni di becchino. La perizia stimava una spesa complessiva per la realizzazione dell'opera di £ 4461,04.

La scelta della località Poggi Brucoli non è però ben accolta dagli abitanti in quanto questa risulta essere troppo vicina alle abitazioni. Nell'adunanza magistrale del 29 agosto 1838 il magistrato comunitativo di Riparbella composto dal gonfaloniere Francesco Dolfi e dai priori Francesco Tabani e Tommaso Conforti affrontarono l'istanza presentata dal conte Francesco Mastiani alla Camera di Soprintendenza di Pisa contro l'occupazione del suo terreno per la realizzazione del cimitero. L'istanza viene accolta ed il 30 aprile 1839 viene deliberata la nuova costruzione in loc. La Corsina , da cui il paerse dista circa due quinti di miglio.

Il terreno prescelto era distinto al Nuovo Catasto alla sezione D, al numero 196, di proprietà del Piviere di Riparbella e confinava con le proprieta Mastiani e Stefanini Dalla nuova perizia, redatta dall'ingegnere del circondario il 26 marzo 1839, si ricava che il nuovo cimitero doveva essere costruito a pianta rettangolare rispettivamente di 55 braccia per 47, con un recinto alto braccia 4,25. Tale area era stata calcolata per accogliere 480 cadaveri, La preoccupazione, espressa chiaramente nella relazione, era quella di evitare l'inconveniente già accaduto nel vecchio cimitero di seppellire in terreni dove già erano stati inumati altri cadaveri precedentemente. Annessa era proposta un a cappella ad uso di stanza mortuaria, con aggiunta, rispetto al precedente progetto, di una piccola stanza ad uso del becchino. La cappella era stata progettata a forma quadrata di 6,5 braccia, con un altare mentre la stanza adiacente risultava 4,5 per 6.5 braccia.

La nuova perizia stimava l'importo dei lavori in £ 6770 e 58 centesimi

ASCRi, Deliberazioni e partiti, n°provv.15, c.6r
Ibid., Atti magistrali, n° provv. 23.
ASCRM, ex 161

torna su

 

Luigi Bellincioni
Il cimitero monumentale di Riparbella

Luigi Bellincioni è stato l'architetto che più ha operato nella Valdera a cavallo tra il XIX e XX secolo. Nella sua lunga attività professionale ebbe modo di cimentarsi in molti temi e tipologie edilizie: palazzi, ville, costruzioni rurali ed industriali, chiese, campanili ed ultime dimore. Proprio in quest'ultimo tema è risultato essere originale ed innovativo per le varie soluzioni planimetriche trovate. Realizzò, a partire dal 1882, il cimitero di Ponsacco, quello di Capannoli, Riparbella, Campiglia Marittima, Camugliano e la Misericordia di Pontedera.

Il Bellincioni fu incaricato del progetto del cimitero di Riparbella con delibera comunale del 13 dicembre 1884; in una sua relazione, inviata al Comune di Riparbella, in data 29 ottobre 1885, descriveva gli intenti che avrebbe perseguito nella realizzazione del nuovo cimitero: limitare al massimo lo spazio interno per limitare lo sviluppo del fronte delle cappelle e del loggiato……. E pertanto si suggerisce lo schema ottagonale che riesce a soddisfare le due predette condizioni ed al tempo stesso dare una forma più nuova ed originale all'insieme.

Da un punto di vista operativo il lavoro fu diviso in due lotti, uno a totale carico dell'Amministrazione Comunale e l'altro a carico dei privati. Il primo, per un importo di £ 14.736 ca. prevedeva la costruzione del quartiere del custode, la cappella, le sepolture comuni, il muro di cinta, la stanza mortuaria e gli ossari. Nel secondo invece comprendeva le cappelle private ed il loggiato di pertinenza.

Dall'affidamento dell'incarico al Bellincioni, all'appalto dei lavori avvenuto il 18 aprile 1891, trascorse molto tempo perché non si riusciva a trovare un terreno adatto con scarsa composizione di argille.

Il 1° maggio 1895 la Ditta Belli , aggiudicataria dei lavori, consegnò il fabbricato d'ingresso, la cappella, il loggiato antistante, tre cappelle private, la cappella Fontanelli, quella Paglianti e quella Giusteschi.

L'anno successivo si verificarono delle lesioni sulla struttura, per questo il Bellincioni si recò a Riparbella per effettuare i necessari saggi. Da questo scaturì che la Ditta Belli aveva modificato le misure per lucrare sulla quantità dei lavori, oltre che adoperare materiali di scarsa qualità.

Da allora il cimitero fu oggetto di ampliamenti nel 1907 e nel 1914 con la costruzione di quattro nuove cappelle sempre sotto la guida dell'architetto Luigi Bellincioni.

torna su

 

Il Marchesato dei Carlotti a Riparbella

Nell'ottica di costituire un ceto privilegiato, assolutamente legato alla casa Medici, in antitesi al vecchio patriziato fiorentino di credo repubblicano, Cosimo I ed i suoi successori, rinnovarono l'antica consuetudine di nominare un feudatario a cui destinare la gestione sia amministrativa che parzialmente giurisdizionale di zone periferiche dello stato.

Fra i molti feudi, non molto numerosi se paragonati ad altre realtà come il Regno di Napoli o il Ducato di Savoia, costituì in Toscana il feudo di Riparbella. Il suo territorio venne concesso, l'11 agosto 1635, dal Granduca Ferdinando II ai patrizi veronesi, Andrea e Alessandro Carlotti, che acquisirono il titolo nobiliare di Marchesi della Riparbella.

Andrea Carlotti, Cavaliere di Giustizia , dell'Ordine di Santo Stefano, dal 1° ottobre 1612 rivestiva anche l'incarico di Cameriere di S.A.S. , per essere stato precedentemente Coppere della Granduchessa Cristina. Dal 1626 al '29 fu nominato Gran Cancelliere di Santo Stefano ed il marchesato rappresentava la giusta coronazione di una brillante carriera politico-amministrativa; Alessandro invece era il fratello carnale di Andrea.

Ad entrambi l'investitura concedeva il diritto di successione per linea di primogenitura maschile; alla morte di Andrea, deceduto senza eredi, gli succedette il nipote Marcello, figlio di Alessandro. La successione venne sancita da Ferdinando II con decreto del 7 marzo 1648.

Anche il marchese Marcello, morì senza lasciare eredi maschi e la successione fu affidata a suo nipote Girolamo con l'investitura, da parte del Granduca Cosimo III, il 3 maggio 1671.

A questi seguirono Andrea e suo fratello ma non si conoscono i nomi degli altri marchesi che seguirono fino al 1730 ca., quando Alessandro Carlotti, l'ennesimo insieme al figlio Antonio ed al fratello Andrea, chiesero a S.A.S. l'autorizzazione a cedere per 12.000 scudi il feudo al senatore Carlo Ginori. Il motivo che indicavano era la troppa lontananza di Riparbella dalla loro residenza, Verona, che non consentiva loro una diretta politica di investimento in queste terre.

Il Granduca autorizzò la cessione, rinnovando al Ginori le esenzioni ed i vecchi privilegi esercitati dai Carlotti. Sappiamo che il ricavato della vendita servì alla famiglia Carlotti per l'acquisto una residenza ad Imperia.

Al tempo della vendita il feudo, con un perimetro di ca. 18 miglia , contava solo 238 anime, con un modesto incremento rispetto alle 178 rilevate alla metà del ‘600. Anche le entrate risultavano modeste e comunque, purtroppo, inferiori alle uscite.

Clara Errico e Michele Montanelli

torna su

Chiese

Le antiche pievi erano chiese nelle quali era presente la fonte battesimale ed avevano sotto di sé altre chiese rurali. Il territorio appartenente alla pieve era detto piviere, quello di Riparbella, appartenente alla diocesi Pisana, confinava ad est ed a sud con la diocesi di Volterra, a nord con il piviere di Pomaia e ad ovest con quello di Vada. Le prime notizie della pieve di Riparbella, fino ad oggi documentate, risalgono al 1125 quando il pievano Lamberto si lamentò presso la curia arcivescovile perché i monaci depauperavano la sua pieve nelle decime e nei funerali. a seguito di ciò il 14 settembre dello stesso anno l'arcivescovo Ruggero Upezzinghi ordinò agli abitanti di Riparbella di pagare le spettanti decime alla pieve e di accompagnarvi i propri defunti in quanto era cosa giusta seppellire un cadavere dove era stato rigenerato alla vita mediante il sacramento del battesimo.

Nel 1834, l'ingegnere del Circondario di Rosignano si recò ad ispezionare le chiese del territorio di sua competenza per valutarne gli interventi di restauro. Dal quaderno degli Appunti presi nelle chiese del Circondiario di Rosignano, compilato in tale occasione, possiamo desumere come fosse la chiesa di Riparbella che, allora, serviva una popolazione di 1212 anime, intitolata a san Giovanni Evangelista. La struttura si componeva di una chiesa con sagrestia campanile e canonica più una chiesa di supplememto che serviva come stanza mortuaria con un campo santo annesso e di una casa colonica.

La chiesa a pianta rettangolare aveva l'altare maggiore composto da due colonne con capitelli di ordine corinzio ; a destra, dentro due incavi trovavano dimora gli altari dedicati a Sant'Antonio abate ed alla circoncisione. Alla loro manutenzione pensavano rispettivamente la famiglia baldasserini e Mastiani. Sempre su questo lato della chiesa si trovava anche la fonte battesimale, mentre a sinistra era collocato un altro l'altare a muro dedicato a Santa Caterina Vergine che beneficiava delle attenzioni della famiglia Guidi ed una pila in marmo e pietra. La chiesa veniva illuminata da quattro finestre una delle quali, la più grande, sopra la porta d'ingresso, il campanile di forma rettangolare aveva due campane. Le condizioni generali della chiesa erano buone. Dalla sagrestia della chiesa si aveva accesso alla canonica che si componeva di un piano terra adibito a stalla, un primo piano con sala, cucina e due camere ed un piano superiore con tre locali.

La chiesa di supplemento che serviva principalmente come stanza mortuaria, aveva un unico altare alla romana, due finestre laterali, una dietro l'altare ed un occhio sopra l'ingresso ; adiacente, a nord-est si trovava il campo santo a forma rettangolare grande 23 braccia e mezzo per 29 con un cancello in ferro. La casa colonica, di proprietà della parrocchia, era situata presso il fiume Cecina a circa 2 miglia dal paese ; questa era formata da un piano terra adibito a stalla ed un piano superiore con camera e cucina. Annesso alla casa c'era il forno.

Con l'ausilio di questi appunti presi in loco, l'Aiuto Ingegnere Luigi Celentani il 16 febbraio 1835 potè redigere la relazione e stima dei lavori di restauro da effettuarsi alla chiesa di Riparbella. tali lavori, stimati complessivamente in £ 490 e 50 centesimi, consistevano nel rifacimento del pavimento nella chiesa, nella rintonacatura del muro del camposanto e nella sostituzione di porte ed infissi.

torna su

Collemezzano

Con il Regio Decreto n.287 del 5 giugno 1892 la frazione denominata “Palazzi di Collemezzano” fino ad allora del Comune di Riparbella, venne staccata per essere aggregata al Comune di Cecina. In questa territorio, erroneamente veniva inclusa una piccola striscia di terra a confine con il Comune di Castellina Marittima, il tutto rettificato nel 1938.

Collemezzano, dopo la confisca dei beni della Gherardesca, a seguito dell'avvento della Repubblica Fiorentina, entrava a far parte del territorio della comunità di Riparbella. Già al tempo dei Medici i poveri lavoranti della collina ritrovavano conforto nel fondovalle, dove le capanne della “Cinquantina” rappresentavano l'unica forma di vita presente nella malsana pianura.

Questo territorio rimase pressoché stabile fino al fenomeno denominato seconda feudalizzazione, ad opera, nel territorio preso in esame, del Marchese Carlo Ginori, a partire dal 1737.

Lo sviluppo avvenne grazie alla fioritura dell'agricoltura, dell'attività della pesca e dell'artigianato. Collemezzano, ritornato ad essere possesso Regio, divenne centro della sperimentazione illuminista del Granduca Pietro Leopoldo, mediante il bonificamento idraulico e la realizzazione del sistema degli scoli delle acque nei terreni ritenuti coltivabili alla destra del fiume Cecina sino a Capocavallo.

Nel 1768, in località “Cinquantina” venne costruito il primo casone in muratura che prenderà il nome del luogo, sul passaggio della via Vecchia Livornese: strada deviata dall'Antica Aurelia, che, prima del Tripesce, si congiungeva all'Emilia in prossimità del fiume Cecina.

Nel 1833, dopo la rettificazione della Strada Regia Emilia, Collemezzano entrava a far parte di un più ampio progetto territoriale di appoderamento ; la notificazione del 6 aprile 1833 obbligava la costruzione di una casa su ogni presella assegnata, con una conseguente fioritura urbana e demografica del territorio.

Il primo appoderamento riguardava tutto il terreno compreso tra la Mensa Arcivescovile di Vada, la via Emilia, la nuova via Salatola ed il Cecina, fino alla fascia macchiosa costiera. In tutto furono assegnate 19 preselle per complessivi 445 ettari .

A seguito di molte istanze fu messa in atto una seconda al livellazione a seguito della notificazione del 24 ottobre 1836 che interessava delle strisce di terreno a levante della Strada Maremmana per un totale di 16 poderi di ca. 172 ettari .

Il primo riconoscimento dell'identità di Collemezzano si verificò durante una visita pastorale dell'ottobre 1837 a seguito della quale fu riconosciuta l'appartenenza di questo nuovo nucleo abitativo alla chiesa di San Giuseppe della Cecina, con il conseguente passaggio dalla Diocesi di Pisa a quella di Volterra.

Nel 1856, a testimonianza del continuo sviluppo del territorio, la comunità di Riparbella vi nominò una condotta medico-chirurgica ed il 21 novembre 1858 l'Arcivescovo di Pisa vi eresse anche una propria cappella.

Sempre nel 1858 si stabilì nel casone della “Cinquantina” Francesco Domenico Guerrazzi, uno dei grandi protagonisti della rivoluzione democratica della Toscana nel 1848. Negli anni successivi hanno inizio continue pressioni dei possidenti per unire il territorio di Collemezzano al Fitto di Cecina per dichiarati motivi di comodità confortati da un'autonomia acquisita mediante servizi già loro concessi come la condotta medica, la levatrice, la scuola, l'illuminazione pubblica, la guardia municipale, lo stato civile per le nascite e le morti, la posta e molti altri. Inviata la Deliberazione Provinciale che proponeva il distacco da Riparbella a favore del comune di Cecina, dopo un lungo periodo, Re Umberto I ne approvò l'esecuzione nel 1892.

Ilio Nencini

torna su

Ingegnere

Con Motu Proprio del 1° novembre 1825 la Toscana fu suddivisa in 37 circondari di Acque e Strade, a Firenze si costituì la Direzione del Corpo degli ingegneri che aveva il compito di supervisionare l'operato del ingegnere inviato in ogni circondario. La comunità di Riparbella apparteneva al circondario di Rosignano del Compartimento di Pisa insieme a Lari, Chianni, Fauglia, collesalvetti, Lorenzana, Santa Luce, Orciano e Castellina Marittima. Insieme a questo corpo venne istituita anche la Sovrintendenza del Catasto che si occupava della conservazione delle mappe e dei documenti catastali originali essendo appena completate le operazioni di compilazione del nuovo catasto. Gli ingegneri effettuavano, con cadenza regolare, dei sopralluoghi alle strade, agli argini dei fiumi ed a tutti gli edifici comuntativi per valutarne lo stato di conservazione e la necessità di un intervento. Le relazioni tecniche e le perizie delle spese occorrenti venivano poi trasmesse alle comunità per deliberarne o meno l'esecuzione. Il Corpo degli Ingegneri fu soppresso nel 1850 quando le loro competenze furono assorbite dagli ingegneri comunali e provinciali.

Nel 1834, l'ingegnere del Circondario di Rosignano si recò ad ispezionare le chiese del territorio di sua competenza per valutarne gli interventi di restauro. Dal quaderno degli Appunti presi nelle chiese del Circondiario di Rosignano, compilato compilato in tale occasione possiamo desumere come fosse la chiesa di Riparbella che, allora, serviva una popolazione di 1212 anime, intitolata a san Giovanni Evangelista. La struttura si componeva di una chiesa con sagrestia campanile e canonica più una chiesa di supplememto che serviva come stanza mortuaria con un campo santo annesso.

La chiesa a pianta rettangolare aveva l'altare maggiore composto da due colonne con capitelli di ordine corinzio ; a destra, dentro due incavi trovavano dimora gli altari dedicati a Sant'Antonio abate ed alla circoncisione. Alla loro manutenzione pensavano rispettivamente la famiglia baldasserini e Mastiani. Sempre su questo lato della chiesa si trovava anche la fonte battesimale, mentre a sinistra era collocato un altro l'altare a muro dedicato a Santa Caterina Vergine che beneficiava delle attenzioni della famiglia Guidi ed una pila in marmo e pietra. La chiesa veniva illuminata da quattro finestre una delle quali, la più grande, sopra la porta d'ingresso.

La chiesa di supplemento, tra levante e mezzogiorno aveva un unico altare alla romana

Nell'adunanza magistrale del 30 marzo 1837 vennero discusse le istanze presentate dai signori Luigi Rossi, Giuseppe Martini ed Eugenio Tani, volte alla costruzione di case lungo la via detta della Madonna, tra il cimitero della comunità e la cappella della famiglia Baldasserini. L'Aiuto ingengnere del Circondario di Rosignanio, Eugenio Fabre, accorda loro il permesso a condizione che siano rispettate delle regole nell'edificazione dei tre fabbricati. Le tre abitazioni dovevano essere distanti tra loro ventuno braccia CERCARE DELIBERAZIONE

Il 16 luglio 1841 l'ingegnere del circondario di Rosignano, Cecchini? Redigeva una perizia per la costruzione di un ponte sul torrente Botra che attraversa la strada detta del Bastione nella comunità di Riparbella:

…gli abitanti del paese non hanno che una sola ed unica strada ruotabile e questa con inclinazioni oltremodo forti e quasi inaccessibili che dal paese medesimo si dirige alla provinciale Volterrana o alla Valle di Cecina. Questo tratto di strada della lunghezza di miglia 2 ½ circa viene traversato dal torrente denominato Le Botra che allorquando è gonfio d'acque interrotta ne rende la comunicazione sia per i pedoni che per le vetture quale giunte al guado del torrente medesimo non possono proseguire il loro cammino né esiste in quel punto un locale atto a ricoverare i viandanti per quel tempo che il torrente medesimo si conserva gonfio dal che ne avviene che il viandante è costretto per le ragioni sopra espresse a porre a cimento la propria vita.

Per queste motivazioni il magistrato comunitativo approvò il ….. la perizia e ne l'inizio dei lavori…

ASCRM, Ingegnere del circondario, 487.
ASCRi, Atti Magistrali, n°provv.23.
ASCRM, ex 3.161

torna su

Fondazione Cassa di Risparmio di VolterraMicrostoria